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Michele Padovano, dal calcio al baratro: «Così sono uscito da un incubo giudiziario»

di Stefano Aravecchia

	Michele Padovano
Michele Padovano

L’ex calciatore, che in carriera ha vinto anche una Champions League con la Juventus, domani sera al club David Lloyd di Modena presenterà il suo libro “Tra la Champions e la libertà”: «Calvario lungo diciassette anni, l’assoluzione mi ha restituito fiducia»

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MODENA. Una storia di ordinaria ingiustizia. È quella che emerge scorrendo le pagine del libro scritto dall’ex calciatore Michele Padovano che verrà presentato domani al club David Lloyd di Modena. L’attaccante che aveva conquistato una Champions League con la Juventus ha atteso diciassette anni tra carcere e tribunali prima di ottenere giustizia.

Padovano, cosa ricorda del momento dove tutto è iniziato nel 2006?

«Le dico sinceramente che dopo tante interviste sull’argomento, quel momento mi piace rimuoverlo. Mi fa troppo soffrire».

Lo ricordiamo noi per sommi capi: appena uscito da un locale di Torino dopo un incontro elettorale da candidato al Comune, un’auto civetta della polizia gli sbarra la strada. «Pensai a una messinscena - dice lui - aspettavo lo striscione di “Scherzi a parte”, invece era l’inizio di un incubo. Ora però ho voltato pagina». Dopo quella sera Padovano ha subito «le manette ai polsi, la perquisizione a casa, il carcere, l’accusa d’essere finanziatore di un gruppo criminale quando avevo solo prestato dei soldi a un amico». È andato in galera a Cuneo prima («lì non potevo parlare con nessuno, sembrava avessero arrestato Pablo Escobar») e a Bergamo poi («lì incontrai una grande umanità. Ero spaesato e il mio compagno di cella mi ha aiutato molto. In carcere ho trovato tanta umanità, credo abbiano capito prima dei giudici che non ero un criminale»).

Com’è stata l’esperienza del carcere da innocente?

«Fin dal primo momento sapevo che volevo risolvere e chiarire l’equivoco. Purtroppo ci sono voluti diciassette anni, quando sarebbero bastati diciassette minuti di buon senso».

Ha mai avuto perso la fiducia nella giustizia?

«Qualche dubbio mi è venuto, soprattutto dopo le prime condanne, ma non ho mai smesso di lottare perchè sapevo di essere innocente. Sono stato un attaccante da giocatore ma, come dicono i miei avvocati, in questa triste storia mi sono rivelato il miglior difensore di me stesso. Il calvario è stato lungo ma alla fine ne sono uscito come volevo. Oggi sono un uomo libero che crede nella giustizia».

Questa esperienza l’ha cambiata?

«Cambiato no, migliorato sì, anche se ne avrei fatto volentieri a meno. Ora mi sento una persona capace di dare importanza ai valori veri della vita. Prima avevo rubrica e casa piene di gente, che poi però non c’è stata nei momenti più difficili. Oggi so chi sono gli amici veri e soprattutto sono consapevole che nessuno è più importante della mia famiglia. Senza mia moglie Adriana e mio figlio Denis non sarei mai riuscito a superare tutto questo: dopo l’arresto, oltre a loro, mi sono rimasti accanto in pochi. Nei momenti bui si capisce chi è amico e chi no, ho fatto pulizia nella mia vita».

Che messaggio vorrebbe che il suo libro lasciasse alle persone?

«Uno su tutti: che si impari a non giudicare nessuno superficialmente. Spesso le cose non sono come sembrano. Io ho vissuto il pregiudizio e so quanto possa far male. La sentenza di assoluzione mi restituisce dignità, fiducia, speranza per il futuro».

Del suo mondo del calcio in molti le hanno voltato le spalle.

«Non nascondo che dal carcere vedere i miei ex compagni - dai quali non avevo ricevuto messaggi di solidarietà - vincere i l Mondiale del 2006 un po’ di tristezza me l’ha fatta venire. Fa parte del genere umano, in certe situazioni si tende ad abbandonare chi è in difficoltà. Ma c’è anche chi mi è stato sempre vicino come Gianluca Presicci, che era con me a Cosenza all’inizio della carriera: la nostra amicizia è estesa alle famiglie, io sono padrino di suo figlio e lui del mio. E Gianluca Vialli, al quale ero legatissimo: non c’è giorno in cui non pensi a lui. Pochi altri, la maggior parte spariti: per tirare avanti ho dovuto vendermi tutto, avevo un diverso tenore di vita, ma oggi ho un’altra ricchezza. Ho imparato le cose vere della vita».

Lei aveva iniziato la carriera di direttore sportivo: si aspetta di rientrare nel mondo del calcio?

«Intanto racconto calcio su Sky, questo ruolo di talent mi piace, e nel frattempo attendo proposte. Spero di ricominciare, ma nessuno potrà restituirmi quello che ho perso. Dal 31 gennaio 2023, quando è arrivata l’assoluzione ci ho messo un po’ di tempo, per un anno ho continuato a pensarci e la cosa non mi faceva bene. Poi ho capito che dovevo resettare, voltare pagina, anche se quella che ho vissuto resta un’esperienza incancellabile. Le ferite rimangono, ma per me e la mia famiglia è importante guardare avanti con serenità. Non sono arrabbiato col mondo».

Nel libro racconta di aver speso tutto quello che aveva guadagnato da giocatore per difendersi e mantenere la famiglia senza poter lavorare.

«Ho venduto la casa in montagna, due appartamenti a Torino, orologi lussuosi, oro. Non mi era rimasto più nulla, ma non potevo fare diversamente. Ho giocato in Serie A, nella Juve e nel Napoli, ma la vita costa e quando non hai entrate ti trovi costretto anche a dover chiedere aiuto agli amici. Questa storia mi ha portato via tutto quello che avevo, ho perso proprietà, soldi, fama. La mia famiglia è stata distrutta, ma insieme abbiamo trovato la forza di reagire».

Sua moglie Adriana ha giocato un ruolo fondamentale.

«Sì, confermo che lei è la vera fuoriclasse di questa storia. Mi ha supportato e aiutato ad arrivare in fondo a questo tunnel. Non è mai cambiata, è rimasta la stessa che ho conosciuto da ragazzo. Mi ha stimolato a non mollare e anche a cambiare i legali dopo i primi due gradi di giudizio. E alla fine è andata bene».

E dopo 35 anni sta finalmente emergendo la verità anche sulla fine del suo amico Bergamini.

«Il primo tassello è stato fatto, un sollievo per noi che gli abbiamo voluto bene e soprattutto per la famiglia che ha lottato tutti questi anni. Alla favoletta che Denis si fosse ucciso noi che lo conoscevamo non ci abbiamo mai creduto, ora aspettiamo i prossimi gradi di giudizio. Io non gioisco per le condanne altrui, ma ho sempre combattuto perchè la verità su Denis venisse a galla. Anche se sono passati davvero troppi anni».

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