Fabrizio Romano, c’è un po’ di Modena nella Williams: «Io, unico meccanico italiano nel team di Formula 1»
Cinquant’anni, vignolese d’adozione ma piemontese di nascita, dal 2018 è nello staff tecnico della scuderia britannica: «Tutto è nato in una cena ad Abu Dhabi, dopo 12 anni trascorsi in Ferrari. Ho iniziato nel rally, dove sono rimasto dal 1996 al 2005»
VIGNOLA. Cinquant’anni, vignolese d’adozione ma piemontese di nascita, Fabrizio Romano è l’unico meccanico italiano inserito nello staff tecnico del team Williams di Formula Uno. Una passione per la meccanica che nasce da molto lontano. Incontriamo Fabrizio per una chiacchierata in questo periodo di riposo dopo una stagione lunghissima, conclusa al nono posto con 17 punti, che ha regalato ben poche soddisfazioni al blasonato team inglese che può vantare ben 9 titoli costruttori e 7 piloti nella sua storia.
Romano, come e quando è nata questa passione?
«Fin da quando piccolo seguivo i rally, a 16 anni ci eravamo trasferiti in Liguria e le varie scuderie venivano a provare nell’entroterra. Chi correva a Sanremo o a Montecarlo veniva a provare lì».
Quando ha iniziato la sua avventura come meccanico?
«A 23 anni dopo il servizio militare e dopo un periodo come operaio, ho mandato il mio curriculum all’Astra Team di Mauro Pregliasco e mi è stato detto di presentarmi al Motor Show per fare assistenza a Miki Biasion. Era il dicembre 1996, il provino andò bene e da lì è iniziata la mia esperienza come meccanico nel mondiale rally. Con rally Art Italia ho fatto tutto il mondiale da Montecarlo alla Finlandia, dall’Argentina all’Australia con Gigi Galli. Devo dire che Montecarlo resta un’esperienza particolare e difficile per la particolarità del fondo stradale che ci costringeva a passare dalle ruote chiodate a gomme da stampo a seconda del tipo di innevamento del tracciato, ma voleva anche dire cambiare diametro dei dischi e dei cerchioni. Con Mitsubishi sono rimasto nel mondiale fino al 2005».
La macchina che le è rimasta nel cuore? E il pilota più bravo?
«Sicuramente la Lancia Delta gruppo A a quattro ruote motrici mentre il pilota è stato Juha Kankkunen che vedevo provare sulle strade liguri».
Quando è passato alla Ferrari e quindi alla Formula Uno?
«Avevo inviato il curriculum nel 2005 e fui chiamato dalla Ferrari per un colloquio. Parlai con Nigel Stepney che era il coordinatore tecnico del team di Formula Uno dopo esserne stato anche capo meccanico. Mi fu offerto un posto nel test team che era composto da una ventina di meccanici e accettai. Mi sentivo al settimo cielo, come un calciatore che finalmente entrava in nazionale. Il passaggio alle gare fu graduale perchè dal test team noi meccanici a rotazione venivamo inseriti nella squadra corse».
L’episodio che ricorda più volentieri negli anni passati con la scuderia di Maranello?
«Ricordo in particolare il 2006 quando, come ogni anno, eravamo pronti per l’avviamento della nuova macchina. Quando è arrivato Todt, che era sempre presente ad ogni avviamento, c’era un silenzio assoluto fatto di rispetto, concentrazione e motivazione e alla fine, ad avviamento avvenuto, Todt stringeva le mani a tutti con un senso di vicinanza e motivazione per tutti gli addetti. Una vicinanza che andava oltre a quel momento e che si manifestava anche in altre occasioni quando magari si lavorava anche di notte per completare la macchina».
Come mai il desiderio di cambiamento a un certo punto della sua vita?
«Mi sarebbe piaciuto avere un’esperienza fuori dall’Italia e mi attirava l’Inghilterra che aveva molta esperienza e ambizioni nel motorsport. Mi piaceva il loro modo di fare assistenza sempre precisa e silenziosa, ero alla ricerca di un confronto con altre esperienze perchè mi sarebbe piaciuto crescere ulteriormente. A fine 2017 ad Abu Dhabi ero al ristorante con colleghi di altre scuderie e, nel salutare un meccanico della Williams, scherzando mi disse che se avesse potuto cambiare sarebbe venuto volentieri in Ferrari e io risposi che avrei potuto andare all’estero magari proprio in Williams. Il giorno dopo mi hanno chiamato per fare due chiacchiere e puntualmente feci il colloquio fuori da occhi indiscreti e anche in quella occasione ebbi modo di imparare alcune cose nuove su come rapportarmi con le persone. Il colloquio si concluse con il classico “ti faremo sapere” e mi sarei aspettato di veder passare del tempo invece, con mia sorpresa, il giorno dopo mi hanno comunicato che la posizione era mia. Nel 2018 ero in Williams».
Anche qui qual è stato l’episodio che ricorda più volentieri?
«Mentre stavo lavorando c’era anche Frank Williams e ho pensato di presentarmi visto che ancora non lo avevo fatto, quando ha saputo che ero italiano è passato dall’inglese all’italiano e mi ha invitato a chiamarlo Frank come facevano tutti. Mi fece una bellissima impressione e in breve tempo capii quanto fosse amato, cosa non sempre scontata e con pochi riscontri, ci conosceva tutti per nome e si interessava a ognuno di noi».
Cosa si aspetta dal futuro?
«Per il momento mi accontenterei di vedere una nostra macchina sul podio».
Cosa consiglierebbe a un giovane che abbia i suoi stessi sogni?
«È una risposta difficile, mi sembra che manchino i riferimenti motivazionali, è importante conoscere almeno una lingua straniera e due sarebbe ancora meglio. I ragazzi dovrebbero avere più voglia di chiedere, di fare domande agli insegnanti e ci vuole anche la possibilità di fare esperienze lavorative diverse per capire meglio attitudini e capacità senza avere paura di sacrificarsi lavorando magari anche nei fine settimana come facciamo noi abitualmente».
Pensa che i giovani oggi facciano più fatica a sognare?
«Credo di sì, noi eravamo attratti dalla meccanica, dalla voglia di provare a mettere le mani sui nostri ciclomotori elaborandoli, cambiando le marmitte, eravamo più pratici. Oggi forse sono molto distratti dai social, hanno meno fantasia e voglia di sperimentare».
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