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Parigi 2024

Il modenese Leonardo Righi della Fratellanza è il coach del duecentista olimpico Pettorossi: «Il mio allievo d’America»

di Ernesto Bossù
Il modenese Leonardo Righi della Fratellanza è il coach del duecentista olimpico Pettorossi: «Il mio allievo d’America»

L'intervista all'allenatore: «Diego mi ha portato al top, a Modena abbiamo “costruito” le nostre Olimpiadi»

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MODENA. Insieme al duecentista bolognese Diego Pettorossi ha fatto, negli scorsi giorni, il giro del web: Leonardo Righi, modenese di nascita, è l’allenatore dell’unico atleta italiano non professionista che ha preso parte alle ultime Olimpiadi. Una storia, la loro, che è, per certi versi, molto simile. In comune, Righi e il “suo” prodigio, hanno la passione per l’atletica, la perseveranza e la voglia di migliorarsi sempre di più. E, sia pure in due vesti differenti, aver partecipato ai Giochi di Parigi. Cinquantanove anni e modenese di nascita, l’allenatore di Pettorossi all’età di quattordici anni si avvicina al mondo dell’atletica, specializzandosi nel salto in lungo. «Non ero un granché – racconta – ma mi divertivo davvero tanto». Poi, poco più tardi, alla pratica unisce la teoria: prima segue un corso di primo livello, e successivamente di secondo, ottenendo così la qualifica di allenatore a partire dal 2000. E intanto si avvicina alla boxe thailandese, «che non c’entra nulla con il salto in lungo, ma io sono così e mi piace variare», diventando dopodiché preparatore atletico del Modena Rugby, squadra con la quale raggiunge la massima serie. Sono anni in cui Righi comincia a tenere anche allenamenti di atletica leggera e a scovare talenti, il tutto mentre lavora in ufficio perché l’atletica non è un impiego a tempo pieno.
Oggi, accanto al suo mestiere, ricopre anche il ruolo di direttore tecnico presso la Fratellanza, dove, testuali parole, «non faccio sport: ci vivo».

Righi, la società sportiva modenese è la sua casa?
«Sì, sono qui dentro da quando avevo quindici anni. Per me rappresenta molto, è come una famiglia».

Una famiglia che oggi è un punto di riferimento nazionale.
«Già, non si può dire altrimenti: al di là dei grandi allenatori che abbiamo avuto, nelle nostre strutture sono tanti gli atleti di livello nazionale che qui si formano o vengono a perfezionare le proprie caratteristiche. Per noi è un motivo d’orgoglio».

E tra questi c’è Diego Pettorossi, giusto?
«Sì. L’ho iniziato a seguire nell’estate del 2020, e poi in quella successiva. Fu lui a chiedermi, nella seconda metà del 2021, di diventare il suo allenatore, e naturalmente accettai».

Poi?
«A marzo del 2022 Diego terminò gli studi, e lo stesso anno vincemmo i campionati italiani nei 200 metri, entrando in nazionale. Ai Giochi del Mediterraneo arrivammo secondi, e per la prima volta andammo agli Europei. Il 2023 non fu un buon anno: Diego si fece male alla caviglia una settimana prima dell’inizio dei campionati italiani, e in quel momento capimmo che per arrivare alle Olimpiadi sarebbe servito macinare parecchio».

Ci siete riusciti.
«Nel ranking che si è chiuso a giugno di quest’anno Diego era quarantanovesimo, un posto dopo il limite. Per qualificarsi alle Olimpiadi, infatti, ci sono classifiche apposite dalle quali vengono scelti i migliori 48; qualcuno, in quella dei 200 metri, la sua disciplina, rinunciò, permettendogli di andare a Parigi».

E lì ha sfiorato la semifinale con un ottimo 20.53 nei turni di ripescaggio, anche se il suo miglior tempo è 20.45.
«Ha fatto un’ottima gara, e credo che ci siano le prospettive per migliorare».

In che modo?
«Un atleta non professionista, che lavora e agli orari più disparati si allena, parte sfavorito rispetto a chi, invece, corre di mestiere. Penso che nei prossimi quattro anni possa superare il suo personale togliendo un decimo all’anno e arrivando quindi all’appuntamento di Los Angeles intorno ai 20 secondi per 200 metri; si meriterebbe un contratto professionistico».

Come lo ha allenato quando era negli Stati Uniti?
«Abbiamo diviso in due parti il programma. Quando era oltreoceano lavoravamo più sulla quantità: grazie agli strumenti digitali e una videocamera riuscivo a monitorare quanto necessario. Dopodiché da febbraio si è messo in aspettativa e a Modena abbiamo perfezionato la tecnica».

È vero che si svegliava alle due di notte per vedere gli allenamenti di Pettorossi?
«Sì, ma non mi pesava. Diciamo che sono abituato: oltre a Diego, che sta nella costa est, seguo anche Freider Fornasari, che invece vive in un campus universitario nell’Oregon, situato nella parte ovest degli Usa. Insomma, di notte ho da fare».

Qual è il livello dell’atletica italiana?
«Penso sia cresciuta molto, ma non in tutti i settori. Certo è, però, che in quello della velocità – che va dai 100 metri ai 400 ostacoli – sono stati fatti passi da gigante, anche grazie a nuove tecnologie che permettono di massimizzare, senza mai varcare il limite, gli sforzi fisici. Poi rimane il fatto che sono quasi trent’anni che alleno e i metodi sono cambiati profondamente: anche questo incide».

Qual è il suo auspicio per il futuro?
«L’ho già realizzato. Nel salto il lungo ero un atleta mediocre, e sapevo che non sarei mai arrivato alle Olimpiadi, il mio grande sogno. Diego, invece, mi ci ha portato, e questo è stato il coronamento di qualcosa che desideravo profondamente».