Francesco Guccini si racconta: «Ritorno a fare il “cronista” per celebrare il mondo unico dei bar»
Il cantautore modenese aggiorna il libro ispirato dai locali emiliani e dai suoi personaggi
Reggio Emilia A Francesco Guccini una vita non basta. E neppure una sola, prolifica, vena artistica. Nato a Modena, classe 1940, cantautore-poeta di assoluta originalità, indiscusso protagonista di molte stagioni della musica italiana, da diversi anni è, soprattutto, uno scrittore. Dopo l’esordio nell’89 con «Cròniche Epafániche» ha pubblicato «Vacca d’un cane» (1993), «Racconti d’inverno» (1993; con Giorgio Celli e Valerio Massimo Manfredi), «La legge del bar e altre comiche» (1996), «Cittanòva blues» (2003), i due volumi del «Dizionario delle cose perdute» (2012 e 2014), «Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto» (2015), «Tralummescuro» (2019, premio Selezione Campiello) e «Non so che viso avesse» (2020), un successo, come «L’ultima Thule» con cui ha concluso la carriera musicale. Adesso fa ritorno fra la via Emilia e il West con «La legge del bar». E prende a braccetto politica, gioco del calcio, Sanremo, conquiste, balle e tutto il resto.
Francesco Guccini, perché raccontare di nuovo, in versione riveduta e corretta, il mondo del bar?
«Saluto la gloriosa Gazzetta di Modena, per la quale ho fatto il cronista 65 anni fa. L’idea è venuta all’editore che mi ha chiesto di arricchire, rimpolpare, rinverdire «La legge del bar», cosa che ho fatto, inserendo altre leggi, che regolano altri luoghi ugualmente unici».
Se dovessimo dare una definizione, il bar, cos’è?
«Una società a parte rispetto a quella più vasta, una città particolare rispetto a quella, più grande, che le gravita attorno. Un posto che è regolato dalle sue leggi, che non sono quelle ufficiali, che variano anche da bar a bar. Tutto dipende dalla fauna che lo frequenta e dalle usanze che ha».
Nei sei lustri dalla prima all’ultima versione di questo libro è cambiato il mondo. E anche il bar, che lei ha raccontato la prima volta per Comix trent’anni fa, non è più lo stesso... Cosa è rimasto intatto?
«Non frequento più i bar e a dire il vero non sono mai stato un frequentatore di bar cittadini, piuttosto ho bazzicato quelli dell’Appennino. Non saprei dire cosa può essere rimasto, oggi. Certo non può essersi perduto il gusto per la battuta. Una volta c’erano veri e propri specialisti, capaci di prese in giro che duravano nel tempo, che si tramandavano da padre in figlio».
Parlando dell’uomo da bar, del frequentatore abituale. Quello dell’Appennino non è lo stesso che quello di città...
«Sì perché in Appennino la gente si conosce tutta. Il play boy in quel caso tace, non si vanta. Perché è pericoloso, potrebbe prendere in mezzo parenti, conoscenti. Il play boy di città è più libero di vantarsi delle sue conquiste. In montagna vige una grande omertà, serve a non creare zizzania».
Il bar, a volte, è una giungla, dove si fanno fuori, a parole, insidiosi serpenti a sonagli. O un confessionale. Si può dire che è il teatro per eccellenza del raccontatore di balle?
«Beh, bisogna stare molto attenti. Per prima cosa è obbligatorio essere molto documentati. E poi occorre acquistare una certa fama morale cosa che dà il diritto di raccontare delle zecche. Il neofita viene sgamato subito e poi preso, inevitabilmente, in giro. Il maschio Alfa al bar esiste eccome. Può sedere al tavolo da gioco, mentre altri il posto se lo devono guadagnare. Un contesto supremamente maschilista».
Il tempo, comunque, si diceva, passa. E si è sbiadita, non senza nostalgia, la figura del "Professore", esperto «di ogni ramo dello scibile umano», un classico, ormai soppiantato da Internet e dagli smartphone.
«Le sue battute le sparava con sicurezza e anche se non era vero quel che diceva godeva di una certa autorità. Poteva dare perfino esiti sbagliati di certe sfide calcistiche, o affermare da dove deriva la vacca Chianina. Internet e gli smartphone gli hanno tolto spazio».
Non tutti, al bar, possono dire la loro. Come si diventa, usando una metafora calcistica, titolari?
«Mettendosi sempre in secondo piano. Il diritto a partecipare a partite di carte o discussioni si matura un po’ alla volta».
L’ultima volta che è stato al bar?
«Non vado più. Io sono vecchio e il bar del mio paese, a Pavana, ormai non c’è più. E anche in quello superstite non riescono mai a trovare il quarto per giocare a carte. Restano in tre aspettando di poter fare una Scopa, una Briscola, Un tre sette. Dopo un po’ di chiacchiere se ne vanno a casa».
Questo libro parla di tanti universi, quello dei cori ad esempio...
«Frequentavo un coro a Bologna diretto da un amico. Dopo le prove si andava a cantare, giocare a carte, cazzeggiare. Mi chiese di scriverne e ho cominciato a raccontare questo mondo con ironia, a sfotterlo, rimarcando le differenze con i cori trentini. E ogni volta leggevo qualche verso, con grande giubilo di tutti. Allora insegnavo italiano in una università americana che aveva sede anche a Bologna, il Dickinson College. E negli anni ’80 portai tre volte il coro ad esibirsi negli Usa».
Anche la balera, si legge nel libro, era un mondo a parte, con le sue leggi…
«Un universo che ho raccontato più diffusamente e con grande piacere in «Così eravamo», testo che io avrei voluto chiamare, a dire il vero, «Racconti modenesi». Perché si tratta di 6 racconti ambientati a Modena, una città dove non abito più dal 1960 ma che ricordo con grande affetto. Che una volta aveva tante sale da ballo e tanti cinema che non ci sono più. Ricordo il Florida, all’angolo della strada dove sono nato, il Settimo Cielo, sala da ballo più raffinata e il Palazzo dello Sport, locale frequentato per lo più dalla gente di provincia. Tanto che a mezzanotte, fuori dal ’ballo’ dello Sport, i modenesi doc gridavano:«So dài, ch’a ghé la curera!!!».
Il prossimo libro è in cantiere ?
«Un racconto, che sto limando da mesi, che prima o poi arriverà».
Alla fine il bar è un posto con Discepoli e Maestri dove solo alcuni si sentono a casa. In genere, chi nella vita ha scelto di non essere una comparsa.