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Il ricordo

Morte di Papa Francesco: «Anche durante la malattia pensava alla sofferenza degli altri»

di Paolo Seghedoni

	La messa di monsignor Giuliodori al Gemelli
La messa di monsignor Giuliodori al Gemelli

Monsignor Claudio Giuliodori, assistente dell’Università Cattolica e del policlinico Gemelli di Roma, ha incontrato più volte Bergoglio durante i suoi ricoveri: «La sua è stata una vita spesa, donata, offerta al Signore e alla Chiesa»

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MODENA. Monsignor Claudio Giuliodori è da diversi anni assistente dell’Università Cattolica e, di conseguenza, assistente del policlinico Gemelli, ospedale della Cattolica dove da molti anni vengono ricoverati i pontefici. Monsignor Giuliodori, che è anche assistente generale dell’Azione Cattolica Italiana, ha dunque avuto modo di incontrare più volte papa Francesco e di farlo spesso proprio in occasione dei suoi ricoveri all’ospedale Gemelli.

Eccellenza, che ricordo ha di Francesco nei suoi ricoveri? E in particolare nell’ultimo, quello da cui era uscito poche settimane fa?

«Abbiamo avuto una Grazia speciale, come Università Cattolica e policlinico Gemelli, di accogliere il Santo Padre in situazioni di particolare delicatezza, alle prese con la malattia. Prima con un intervento addominale e poi con le infezioni plurime ai polmoni di questi ultimi tempi che hanno appesantito una situazione delicata. In tutto questo potremmo limitarci al semplice fatto sanitario, ma in realtà abbiamo toccato ancora di più con mano la capacità del Papa di farsi solidale con tutti. La malattia è stato il veicolo per essere vicino e partecipe della sofferenza di tante persone. Se c’era qualcosa che si poteva risparmiare era la visita ai carcerati del Giovedì Santo, ma è quella che voleva di più. Ogni suo pensiero era rivolto alla sofferenza degli altri. La sua è stata una vita spesa, donata, offerta al Signore e alla Chiesa».

Il Gemelli è stata la sua “casa” nei suoi ricoveri, specie nell’ultimo periodo.

«Un tempo si diceva che Castel Gandolfo fosse il “Vaticano due”, ma in questi tempi il “Vaticano due” era proprio il policlinico Gemelli dove, attorno alla memoria dei pontefici e sotto statua di san Giovanni Paolo II, in questo periodo c’è stato un pellegrinaggio incessante di preghiere, con lo sguardo rivolto al decimo piano, alla finestra della camera di Francesco. Abbiamo vissuto quei giorni, insieme con i medici e con l’equipe che lo accudiva, sia con l’apprensione ma soprattutto in un clima di preghiera. È come se fossimo stati condotti all’essenza dell’esperienza cristiana, nel cuore del mistero pasquale. E ora vogliamo accompagnarlo, dopo la passione e la morte, allo splendore della vita piena in Dio. In questi giorni di luce pasquale possiamo comprendere e apprezzare ancora di più quello che ci ha lasciato come eredità preziosissima: l’immagine della Chiesa “ospedale da campo”. Ha concluso la sua esistenza passando dall’ospedale per ricordarci che questa non è una dimensione accessoria o marginale della vita, ma una dinamica che deve accompagnarci per far diventare questi luoghi della sofferenza luoghi privilegiati dell’amore di Dio. Un grande messaggio pasquale di pace, proclamato in tutte le lingue con vigore assoluto. Ora, nel silenzio, questo appello alla pace risuonerà ancora più forte e chissà che la sua eredità non possa ottenere un risultato. La benedizione urbi et orbi di Pasqua è il sigillo potente sul suo pontificato».

Ci regala un episodio che ricorda della sua permanenza in ospedale?

«C’è un aneddoto che per noi al Gemelli è molto significativo. Quando uscì dal ricovero per l’intervento intestinale, passando qualche minuto con lui gli presentai il progetto della nuova cappella nella hall del policlinico. Mi chiese “ma hai una penna?” e firmò quel progetto. È stata completata nel giugno dell’anno scorso, non riuscì a venire per inaugurarla, ma è stata realizzata grazie a questa sua firma che portiamo impressa nel cuore. E poi penso a mercoledì scorso, quando a Santa Marta ha voluto ringraziare personalmente tutti, dai vertici a tutti gli operatori che lo hanno sostenuto durante il suo ricovero. Porterò, come tutti gli altri, anche l’ultima stretta di mano che gli ho potuto dare. È difficile dire quali siano le cause della morte, non è detto che sarebbero stati evitati i momenti critici anche se si fosse risparmiato. La sua condizione di estrema fragilità, lui ha messo al primo posto il suo ministero e per questo ha dato tutto».

Ci sono delle similitudini con la morte di san Giovanni Paolo II?

«Si tratta di due pontefici che hanno vissuto la testimonianza del dolore, della sofferenza, della malattia e ne hanno fatto una cattedra. Al Gemelli c’è una mostra su san Giovanni Paolo II sul dolore, per il suo stile di vita e insegnamento e papa Francesco ci lascia una testimonianza non meno vigorosa e forte; si è fatto carico delle malattie di tutta l’umanità. Quest’ultimo passaggio in carcere dice fino in fondo la solidarietà estrema con gli ultimi, i più poveri, i più sofferenti».

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