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L’Emilia 10 anni dopo Aemilia: «Organizzazioni mafiose ancora radicate nelle nostre terre»

di Giovanni Tizian
L’Emilia 10 anni dopo Aemilia: «Organizzazioni mafiose ancora radicate nelle nostre terre»

Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, l’analisi del giornalista Giovanni Tizian: «L’essenza non è cambiata, l’unico passo avanti grazie all’educazione»

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MODENA. “Associazione con epicentro in Reggio Emilia, Modena, Parma, Piacenza, quantomeno dal 2016 a oggi”. Al di là di come la si voglia pensare o interpretare, recentissimi atti giudiziari certificano un dato che dopo quarant’anni dovrebbe essere scontato: la questione mafiosa è ancora attuale in Emilia. Lo è sotto la Ghirlandina, lo è a una manciata di chilometri verso nord seguendo la direttrice dell’autostrada A1 che scorre verso Milano. Quasi mezzo secolo di infiltrazione criminale, che si è fatta, decennio dopo decennio, radicamento sul territorio regionale. C’è una gran differenza tra i due concetti: l’infiltrazione è come una goccia, impatta sul terreno, penetra in profondità ma poi si asciuga; il radicamento è come un reticolo robusto, radici mature che da sotto il manto avvolgono le comunità. Non si tratta di divagazioni giornalistiche.

Il processo Aemilia

L’evoluzione della specie delle mafie sul nostro territorio è disvelata in migliaia di pagine di sentenze arrivate fino all’ultimo grado di giudizio. Una in particolare andrebbe studiate nelle scuole superiori emiliane: quella prodotta dai giudici del processo Aemilia, che ha rotto gli argini dell’indifferenza rispetto a un fenomeno cresciuto grazie alla protezione di una muraglia di silenzi tramandanti di azienda in azienda, di politico in politico, di professionista in professionista. Il processo Aemilia è stato il più grande procedimento contro la ‘ndrangheta nel nord Italia, ossia la mafia calabrese radicata, appunto, in Emilia. I giudici hanno stabilito condanne pesantissime per i boss, cioè i capi dei capi delle cosche, per complici ben inseriti nella borghesia locale, inclusi imprenditori nati e cresciuti nelle nostre province. Indagati anche alcuni politici, poi chi assolto e chi prescritto alla fine dei processi. L’inchiesta madre è del 2015. I cronisti ancora la ricordano per l’imponenza dell’operazione messa in piedi dalla procura antimafia di Bologna e dai carabinieri. Era il 28 gennaio. Un freddo difficile da dimenticare, aspettavamo fuori dalla caserma di via Pico della Mirandola fin dalle quattro di mattina. Un via vai di auto in borghese, gazzelle a sirene spiegate, così senza sosta fino alla mattina, per poi accertare che gli arrestati erano centinaia così come i sequestri di beni milionari.

Dieci anni dopo

A distanza di dieci anni ha ancora senso guardare indietro? O meglio, Aemilia è ancora una fotografia attuale dello stato delle mafie sul territorio modenese e in generale emiliano? Le ultimi indagini dell’antimafia, che ci sono anche se oggi se ne parla meno, confermano l’essenza di organizzazioni mafiose radicate: con la testa pensante qui tra noi; con un fiuto per gli affari legali; capaci di corrompere imprenditori, professionisti vari, tecnici comunali e via dicendo. L’esercito dei clan in Emilia è maestro di fatturazione gonfiate. Lo era allora e lo è ancora oggi, rivela l’ultimo mandato di cattura spiccato dai pm di Bologna nei giorni scorsi. Le famiglie coinvolte sono sempre più o meno le stesse: cambiano le generazioni, ci sono le nuove leve, i capi anziani sono dietro le sbarre e hanno lasciato un esercito pronto a gestire i loro imperi nella pianura padana. I marchi di questi casati sono sempre gli stessi: Grande Aracri, Dragone, Arena, Nicoscia, Bellocco, Strangio, Mancuso.

Il territorio

È cambiato certamente l’atteggiamento del territorio. Da un lato dopo il maxi processo Aemilia è come se ci fosse stata la necessità di archiviare quel capitolo scabroso. Dunque meglio non parlarne più. Meglio convincersi che la retata del 28 gennaio di due lustri fa sia stata sufficiente a recidere le radici della ‘ndrangheta dalla società in cui siamo immersi. Passi avanti più rilevanti sono stati fatti nell’educazione dei valori dell’antimafia tra gli studenti, nella capacità di unire la memoria di storie che sembravano lontane con l’oggi. Un passo avanti, certo. Ma altri indietro. In molti, seppure taciturni, conoscono la reale entità di questa presenza criminale: chi è sotto usura dai clan ed è costretto a cedere la propria azienda; o chi ha assistito all’ennesima intimidazione nel suo cantiere o negozio, un camion o un auto bruciata, fatti derubricati magari a casualità; oppure basta parlare con quei notai o avvocati che firmano passaggi di quote o compravendite immobiliari che puzzano di denaro sporco. I testimoni che potrebbero raccontare di come le mafie lavorano a pieno ritmo nelle province emiliane non mancano.

Il clima

Tuttavia c’è da dire che il clima è mutato: di mafia in Parlamento non si parla più; il governo ha spuntato le armi della magistratura abolendo reati spia tipici dei colletti bianchi, come l’abuso d’ufficio, utile a capire se in un’amministrazione esistano sistemi clientelari di cui beneficiano imprenditori legati ai clan; la corruzione, arma in mano ai boss, è ormai derubricata a vizietto italiano inestirpabile. Il messaggio assomiglia a una resa di fronte ai sistemi criminali, composti non da mafiosi con la coppola, ma da trentenni e quarantenni, eredi di quel casato ora manager di imprese locali con eserciti di consulenti. Gente che teme più di finire sotto inchiesta per reati economici che di mafia. E se i primi sono considerati da chi governa un inutile orpello, è facile intuirne le conseguenze.

Le mafie in Emilia

Questo giornale ha il merito di aver raccontato prima di altri le dinamiche mafiose sul territorio. Dai gruppi della camorra Casalese, che spadroneggiavano fino al 2010, fino allo strapotere della ‘ndrangheta, che finché c’erano i primi avevano stretto una sorta di alleanza per non farsi la guerra. Siamo passati dalle bische, ai videopoker, alle videoslot fino ai poker online. Un settore da quasi cento miliardi in tutta Italia. E poi: l’edilizia, il trasporto, i prestiti a usura, i fiumi di cocaina, il reinvestimento nei ristoranti, hotel, locali della movida. Storie ormai accertate, raccontate dai collaboratori di giustizia, cioè ex affiliati che hanno parlato dei segreti delle mafie in Emilia. E sono tantissimi, oggi. Tutti figli di quella stagione del processo Aemilia. Una miniera di informazioni è in possesso delle procure e degli investigatori. Affari, nomi, cognomi, di padrini e complici insospettabili. Di locali notturni gestiti da loro e di ditte ben inserite nel mercato. I sospetti di aziende legate alle cosche nei cantieri dei vari superbonus hanno riguardato tutta Italia e in alcune aree del Paese, i sospetti sono diventate prove nei processi. In Emilia restano sospetti, voci. Che però riecheggiano ogni qual volte si passa davanti a un cantiere nato durante lo sfarzo del bonus edilizio e rimasto lì un po’ acciaccato dal tempo ancora adesso che le risorse non esistono più. Un mafioso in doppiopetto non smette di essere tale. Prima o poi chiederà il conto.

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