Vita da lavoratore in nero a Modena: «Sfruttato come uno schiavo e picchiato al primo “no”»
Il giovane di origine curda si è affidato alla Cisl, che ha denunciato la ritorsione
MODENA. Ha 24 anni, è turco di etnia curda, ed è arrivato in Italia, a Modena, in cerca di un futuro migliore. «Nel mio Paese ho studiato computer grafica, la tecnologia è il mio grande hobby, ma sogno di aprire un bar tutto mio. Mi piace preparare i drink, guarda qui...». E mentre ce lo racconta, scorre con il dito sul cellulare mostrandoci decine di foto di drink: «Li ho preparati io». Sono colorati e tutti diversi gli uni dagli altri.
Il rifiuto e la ritorsione
Sfogliando ancora la galleria fotografica ecco che vediamo immagini di cantieri, di ruspe, di escavatori e di gilet gialli da lavoro. Si vede una strada di Formigine, una pensilina a Modena e un hotel della provincia. E ancora: Castelvetro, Soliera, Formigine e pure Ferrara. Praticamente mezza regione, diversi sono lavori pubblici. Mezza regione in cui Mohamed (nome di fantasia per tutelare la sua privacy, ndr) è stato impiegato da una ditta in nero, senza tutte le norme di sicurezza necessarie, e sfruttato come uno schiavo dal suo datore di lavoro, che addirittura lo faceva dormire nel capannone della ditta così che facesse anche il custode. «Solo dopo dieci mesi mi ha concesso un contratto regolare», dice.
E proprio quell’imprenditore, insieme a due parenti, il pomeriggio del 21 settembre, ha aggredito e pestato Mohamed e un suo amico, sbarrandogli la strada con l’auto e lasciandoli tramortiti a terra, sull’asfalto di stradello Noce, con la faccia insanguinata. Una spedizione punitiva in piena regola, architettata da un uomo con cui, fino a pochi giorni prima, lavorava nei cantieri di tutta la provincia. Il motivo del raid? «Gli avevo detto che volevo licenziarmi – spiega – e lui mi ha risposto che avrei dovuto restituirgli i soldi dei contributi che mi aveva versato per quei due mesi di lavoro regolare: oltre 3mila euro». Mohamed si è rifiutato e ha subito la ritorsione. «Oggi ho una casa, lavoro come corriere e sto bene», dice da uno degli uffici della sede modenese della Cisl, il sindacato a cui si è affidato e con cui, dimostrando grande coraggio, ha deciso di denunciare tutto.
L’incubo
«Non è facile per me raccontare questa storia. Sono dovuto scappare dal mio Paese perché sono curdo e voi sapete come il regime turco tratta quelli come me. Per questo oggi sono in attesa dell’ok della Commissione che deve valutare la mia domanda di asilo politico. L’8 giugno 2023 sono entrato in Italia da clandestino, arrivando dall’Austria. La prima città che ho visto è stata Bolzano, dormivo all’aperto, sulle panchine e c’era tanto freddo. Poi sono arrivato a Carpi e infine a Modena, dove grazie ad altre persone della comunità turca ho trovato un lavoro».
E qui inizia l’incubo durato circa un anno: «A ottobre ho iniziato a lavorare in nero per questa impresa che faceva di tutto in ambito edile. Insieme ad altri due colleghi abbiamo dormito come animali nel capannone dell’impresa, in uno spazio ricavato tra bidoni, badili e tutto il materiale di cantiere. Sono stati mesi lunghi e difficili. Le ore di lavoro non erano mai conteggiate correttamente e dovevamo lavorare, sempre e sempre, anche il sabato e alla domenica. Quando pensavo di poter riposare, il titolare veniva e mi ordinava di pulire il magazzino, caricare e scaricare il camioncino, preparare il materiale che serviva il lunedì successivo».
Nei dieci mesi da irregolare, lavora in tante città dell’Emilia-Romagna e della provincia di Modena. «Insieme ad altri operai in nero abbiamo posato asfalti, costruito marciapiedi, realizzato pavimenti in autobloccante. Diversi interventi pubblici, ma anche lavori per conto di importanti imprenditori. Per molti di questi cantieri ho realizzato foto, tutte geolocalizzate, che possono dimostrare quello che sto dicendo. Siccome ero in nero, il titolare mi ha anche mandato su Whatsapp il documento di un collega nordafricano che aveva preso la cittadinanza italiana. Ha inviato fronte e retro del suo documento di identità cartaceo e anche della tessera sanitaria, così che potessi usarle in caso di controlli in cantiere. Avrei dovuto dire che mi chiamavo come il collega e far vedere le foto dei suoi documenti. Ricordo che una volta c’è stata un’ispezione, ho mostrato le foto e non mi è successo niente», sottolinea.
L’aggressione
A luglio, viene messo in regola con un contratto a tempo determinato, ma a fine agosto decide di licenziarsi perché «stanco di questa vita». Il suo datore di lavoro non accetta questo “no” e a quel punto scatta la ritorsione: «Il 21 settembre ero diretto verso Carpi con un amico e collega, quando un’auto ci ha sbarrato la strada. È sceso il mio titolare, insieme a due parenti, ci hanno pestato a sangue e sono scappati. Io e il mio amico siamo andati all’ospedale di Carpi e siamo stati dimessi con 15 giorni di prognosi. Il giorno dopo ho denunciato tutto ai carabinieri di Carpi e ho raccontato la mia storia alla Cisl (che ha sporto regolare denuncia all’Ispettorato del Lavoro, ndr), dove sono stato accolto e hanno iniziato a studiare il mio caso. Mi sono chiesto più volte se rendere pubblica questa storia – conclude il giovane – Ma se quello che mi è accaduto potrà aiutare altre persone e contribuire a costruire un mondo migliore, bene, ne sono felice».
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