Vita da infermiere all'ospedale di Baggiovara: «Insulti, sputi, graffi»
Michele Ruffo, 38 anni, racconta le quotidiane difficoltà del personale sanitario, sempre più vittima di aggressioni come testimoniano i numeri
MODENA. «Ho deciso di fare l’infermiere perché questo è un mestiere che amo. E proprio perché ci metto tutto quello che ho, riesco a sopportare l’insopportabile: sono infermiere da dodici anni, da dieci lavoro nelle realtà del pronto soccorso e, segnatamente, da sette nel pronto soccorso di Baggiovara. Ho smesso di contare le volte in cui sono stato insultato, minacciato e pure aggredito. No, quello che avete visto a Foggia non è un caso isolato. La violenza c’è, la violenza sta aumentando e abbiamo paura. Per risolvere un problema bisogna prima di tutto ammetterlo e guardarlo in faccia».
È lucido, quasi spietato nella sua analisi Michele Ruffo, 38 anni, infermiere laureato e con un master che si è pagato da solo. Dipendente dell’Azienda ospedaliero universitaria, Michele è anche un delegato del sindacato Cisl Fp, e racconta storie su storie dalla prima linea in cui lavora.
Spiega il suo viaggio quotidiano dentro il disagio, la pressione psicologica, il dolore di tantissimi sanitari che vengono malmenati. Con le mani e con le parole.
Ruffo, nel suo percorso professionale a Baggiovara ha mai subito aggressioni e violenze?
«Sì, certo. L’ultima due settimane fa. Insieme ad un vigilante abbiamo dovuto disarmare un paziente psichiatrico che aveva una lama e si feriva davanti a tutte le persone in attesa del triage. Ci siamo avvicinati, mi ha minacciato di morte, è diventato aggressivo. Diciamo che alla fine siamo riusciti a disarmarlo – mi perdonerete ma un’altra parola non mi viene – e poi abbiamo chiamato le forze dell’ordine».
Il posto di polizia al pronto soccorso c’è?
«Sì, c’è. Ma apre alle 8 e chiude alle 14. Di fatto, siamo spesso privi di protezione nel turno più difficile, quello notturno. Di norma, con noi c’è una guardia privata, a meno che non ci siano episodi particolari come, ad esempio, dover andare in psichiatria quando si registrano problemi. In quei casi il contingente della vigilanza viene aumentato».
La presenza di un posto di polizia h24 sarebbe indispensabile…
«Le rispondo descrivendole cosa siamo abituati a vedere: al mattino, mentre il posto di polizia è in funzione, gli agenti in divisa sono ben percepibili, lavorano molto bene e rappresentano una buona deterrenza per tutte le persone che sono nel triage. La sera, invece, la gente non vede nessuno a parte noi sanitari. E quando arrivano quattro, cinque, sei parenti di un malato, e chiedono insistentemente di vederlo, non di rado i toni si scaldano».
E cosa accade?
«Complice il fatto che sono ben piantato, ricevo principalmente offese. I grandi classici: “Coglione”, “Ignorante”, “Imbecille”. Insulti lanciati così, per qualunque cosa. Si arriva alle minacce quando ti senti dire “ci vediamo fuori, ti aspetto”. Ho ricevuto anche sputi e graffi. E in questi casi devi fare prelievi o altre indagini chimico fisiche per l'Aids, l'epatite C e altri rischi. Quasi sempre segnalo tutto sulla piattaforma SignalEr, vado in pronto soccorso per la medicazione e gli accertamenti e per tutta la documentazione che serve all’Inail. Non nascondo che a volte vorrei davvero prendere due giorni di riposo con Inail per riprendermi. Ma poi mi dico che così metterei nei casini i colleghi con i turni».
C’è uno stereotipo di paziente che minaccia e maltratta i sanitari?
«La minaccia è diventata un fenomeno trasversale. Siamo insultati dal ragazzo giovane, spesso una seconda generazione, come dalla persona più anziana e italianissima. Il paziente violento, quello che alza le mani, molto spesso è un anziano affetto da demenza, uno psichiatrico o una persona ubriaca o sotto l’effetto di sostanze. Parliamo di persone malate o con problemi, che non si possono lo stesso giustificare, ma che almeno hanno un movente. Quello che devasta, invece, è il fenomeno della violenza di gruppo, spesso portata da parenti che si alterano perché il paziente sta aspettando troppo, perché non accettano il codice colore assegnato, perché pretendono di vedere il paziente mentre è sottoposto alla visita».
La pandemia ha peggiorato le cose?
«Senza dubbio il post pandemia ha visto crescere tantissimo il livello di violenza verbale e non. Insieme ai colleghi abbiamo notato che, dopo il Covid, le persone si rivolgono molto di più al pronto soccorso di quanto non facessero prima, e questo ha delle ripercussioni sulle attese».
I Cau aiutano?
«Al pronto soccorso di Baggiovara non stiamo vedendo per niente gli effetti dei Cau. Anzi, a volte ci troviamo pazienti spediti in pronto soccoso proprio dai Cau».
I dati dicono che il 68% dei sanitari vittime di violenza sono donne. È vero?
«Sì. Due esempi. Una collega è stata aggredita verbalmente nel triage, da un violento che poi è entrato nella zona di lavoro. Da quell’episodio, è stata adottata una chiave che ci permette di barricarci e metterci al sicuro all’interno. Un’altra collega, invece, è stata presa per i polsi da un uomo che cercava anche lui di entrare nella zona lavoro. Lei è stata coraggiosa, ed è riuscita a dirottare l’aggressore verso l’area di attesa».
Servirebbe più polizia. E cos’altro?
«Un grandissimo deterrente sono le telecamere di videosorveglianza. Recentemente è stata potenziata, ma solo nelle zone di attesa. Tutte telecamere che purtroppo registrano il video ma non l’audio, per ovvi motivi di privacy. Ma quanto sarebbero utili quei prodotti quando si tratta di documentare un'aggressione? Telecamere a parte credo molto in un’altra proposta…»
Dica.
«Servirebbe investire sulla figura di un’assistente nella sala d’attesa. Una persona che segua i pazienti dopo il triage senza farle sentire sole nelle lunghe ore prima della visita, magari rispondendo ai loro dubbi o alle loro esigenze. Lo dico perché tra colleghi notiamo che c’è una grave mancanza di formazione e informazione alla popolazione. La gente arriva da noi e non sa nulla del cambio dei codici colore, delle linee guida, delle direttive che il sistema assume».
Perché la professione dell’infermiere non attrae i ragazzi?
«Il nostro è un mestiere stupendo ma ho conosciuto tante, forse troppe storie, di persone che hanno studiato per arrivare al traguardo e poi, messi i piedi dentro all’ospedale, visti i colleghi che lottano da soli contro i violenti o i parenti inferociti, hanno deciso che la loro vocazione non era quella di fare i buttafuori e se ne sono andati all’estero, in Inghilterra soprattutto. Dove si lavora meglio e con uno stipendio migliore».
Quanto guadagna un infermiere?
«Io 1.900 euro al mese, mettendo insieme stipendio, straordinari, turni di notte e festivi. Facendo sacrifici sono riuscito a pagarmi un master in area clinica».l
GMB
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