Modena: Gabriella Franchini: scrittura come terapia per l’addio a un fratello
di Michele Fuoco
Esce con Aliberti il romanzo familiare “I sogni in tasca” delicato e forte diario per superare la tragedia di un suicidio
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Una storia drammatica diventa una storia anche di affetti, di tenerezze. La vicenda umana alla quale Franco pone fine lanciandosi dai bastioni di Cagliari scuote la sorella Gabriella Franchini che, già modella che ora lavora in una boutique del centro storico, diventa autrice de “I sogni in tasca” (Aliberti editore), da domani in tutte le librerie d'Italia. Un romanzo che si legge come un diario, senza incontrarvi la noia dei giorni inutili, come accade spesso nei diari, perché forte è la tensione narrativa che la Franchini sa imporre con la sua scrittura istintiva, energica, tessendo un legame indissolubile con il fratello, una trama di ragioni segrete della cronaca di una particolare esistenza.
Il libro è un romanzo familiare, con fatti di vita in particolare di Franco. Perché l'esigenza di scrivere questa storia?
«Perché è talmente forte il mio dolore che dovevo in qualche modo farlo uscire. E visto che nella mia vita ho sempre scritto le cose che non riuscivo a dire a nessuno, il libro è stato una medicina per poter ricordare, parlare, perché avevo molti sensi di colpa. Ho rivissuto le cose, come in un diario. Ho cercato anche romanzi che parlassero di questo problema ma non ne ho trovati. Ho scritto per un'esigenza interiore e per dare una risposta ai familiari che vivono lo stesso dolore. Ho dovuto fare i conti col mio dolore e attraversarlo con la scrittura».
L'estremo gesto di suo fratello costituisce spesso quasi una vergogna e si tende a non parlarne, nascondere l'accaduto. Nel romanzo emerge invece il desiderio di raccontare, di raccontarsi. Un senso di colpa?
«I sensi di colpa ci sono stati. Ci sono ancora in modo diverso, ma attutiti grazie al libro e alle persone che mi hanno aiutato. Il fatto non è una vergogna, ma una scelta personale. È stato difficile accettarlo, capirlo. Credo che le persone non debbano giudicare, anche se è un gesto contro la vita. Il giudizio va sospeso. Bisogna comprendere gli altri, conoscerne la storia, il dolore da dove nasce».
Lei dice che “il dolore degli altri spesso fa paura, lo allontaniamo come se potesse contagiarci. Invece potrebbe essere sconfitto...”. In che modo?
«Potrebbe essere sconfitto parlando in modo reale, cercando di capire e vigilare attraverso l'amore delle persone e la conoscenza che può essere data dai medici. Occorre più comunicazione e rapporto affettivo».
Qual è il suo rammarico e dei familiari?
«Non esserci informati di più, pensando che fosse qualcosa che potesse passare e migliorare con il tempo. È vero che lui si chiudeva moltissimo, ma in silenzio si poteva osservare di più e cercare di capire da dove nasceva il disagio. Sono stata molto rigida con lui. Visto che Franco era una persona colta mi sembrava impossibile che potesse fare un simile gesto».
Cosa aveva di straordinario Franco e cosa aveva scritto nel suo “quaderno verde”?
«Franco andava in profondità delle cose. Era molto curioso, non si accontentava delle risposte provvisorie e pretendeva tantissimo da sè. Ci metteva tutto se stesso, lavorava nel sociale e aiutava gli altri. Una persona libera senza schemi, amava la musica, la poesia, le persone, i bambini. Peccato che non ci faceva entrare dentro di lui. Non si raccontava e nel suo quaderno emerge che non si riusciva a vedere in nessun altro posto dove poter star bene pur provandoci. Ha cercato strade nuove ma senza trovarne una fino a svegliarsi senza avere più sogni, progetti».
Da cosa deriva il grande affetto per lui?
«Mi ha insegnato tantissime cose, mi scriveva poesie. La passione della scrittura me l'ha trasmessa lui. Era una persona divertente, sorridente. Mi portava dappertutto. Era la sua preferita e quando avevo bisogno lui c'era. È una delle persone belle che abbia conosciuto».
Un episodio di tenerezza da non dimenticare...
«Mi chiamava sorellina. Riusciva ad entrare molto dentro di me, a leggermi, bastava una frase, una carezza per aiutarmi tantissimo. Sapeva penetrare negli altri ed usare la parola giusta».
Nel libro c'è spazio per riflettere sulla sua vita, sulle scelte che lei ha fatto?
«Il dolore non finirà mai, ma le scelte avvenute dopo la sua morte avvengono con un cuore ed un occhio diverso. Sono cambiata tanto».
Perché “i sogni in tasca”?
«Mio fratello amava tenere nelle tasche degli ammennicoli, cose che raccontavano della sua vita e dei suoi sogni».
Il libro è un romanzo familiare, con fatti di vita in particolare di Franco. Perché l'esigenza di scrivere questa storia?
«Perché è talmente forte il mio dolore che dovevo in qualche modo farlo uscire. E visto che nella mia vita ho sempre scritto le cose che non riuscivo a dire a nessuno, il libro è stato una medicina per poter ricordare, parlare, perché avevo molti sensi di colpa. Ho rivissuto le cose, come in un diario. Ho cercato anche romanzi che parlassero di questo problema ma non ne ho trovati. Ho scritto per un'esigenza interiore e per dare una risposta ai familiari che vivono lo stesso dolore. Ho dovuto fare i conti col mio dolore e attraversarlo con la scrittura».
L'estremo gesto di suo fratello costituisce spesso quasi una vergogna e si tende a non parlarne, nascondere l'accaduto. Nel romanzo emerge invece il desiderio di raccontare, di raccontarsi. Un senso di colpa?
«I sensi di colpa ci sono stati. Ci sono ancora in modo diverso, ma attutiti grazie al libro e alle persone che mi hanno aiutato. Il fatto non è una vergogna, ma una scelta personale. È stato difficile accettarlo, capirlo. Credo che le persone non debbano giudicare, anche se è un gesto contro la vita. Il giudizio va sospeso. Bisogna comprendere gli altri, conoscerne la storia, il dolore da dove nasce».
Lei dice che “il dolore degli altri spesso fa paura, lo allontaniamo come se potesse contagiarci. Invece potrebbe essere sconfitto...”. In che modo?
«Potrebbe essere sconfitto parlando in modo reale, cercando di capire e vigilare attraverso l'amore delle persone e la conoscenza che può essere data dai medici. Occorre più comunicazione e rapporto affettivo».
Qual è il suo rammarico e dei familiari?
«Non esserci informati di più, pensando che fosse qualcosa che potesse passare e migliorare con il tempo. È vero che lui si chiudeva moltissimo, ma in silenzio si poteva osservare di più e cercare di capire da dove nasceva il disagio. Sono stata molto rigida con lui. Visto che Franco era una persona colta mi sembrava impossibile che potesse fare un simile gesto».
Cosa aveva di straordinario Franco e cosa aveva scritto nel suo “quaderno verde”?
«Franco andava in profondità delle cose. Era molto curioso, non si accontentava delle risposte provvisorie e pretendeva tantissimo da sè. Ci metteva tutto se stesso, lavorava nel sociale e aiutava gli altri. Una persona libera senza schemi, amava la musica, la poesia, le persone, i bambini. Peccato che non ci faceva entrare dentro di lui. Non si raccontava e nel suo quaderno emerge che non si riusciva a vedere in nessun altro posto dove poter star bene pur provandoci. Ha cercato strade nuove ma senza trovarne una fino a svegliarsi senza avere più sogni, progetti».
Da cosa deriva il grande affetto per lui?
«Mi ha insegnato tantissime cose, mi scriveva poesie. La passione della scrittura me l'ha trasmessa lui. Era una persona divertente, sorridente. Mi portava dappertutto. Era la sua preferita e quando avevo bisogno lui c'era. È una delle persone belle che abbia conosciuto».
Un episodio di tenerezza da non dimenticare...
«Mi chiamava sorellina. Riusciva ad entrare molto dentro di me, a leggermi, bastava una frase, una carezza per aiutarmi tantissimo. Sapeva penetrare negli altri ed usare la parola giusta».
Nel libro c'è spazio per riflettere sulla sua vita, sulle scelte che lei ha fatto?
«Il dolore non finirà mai, ma le scelte avvenute dopo la sua morte avvengono con un cuore ed un occhio diverso. Sono cambiata tanto».
Perché “i sogni in tasca”?
«Mio fratello amava tenere nelle tasche degli ammennicoli, cose che raccontavano della sua vita e dei suoi sogni».